Se a Ottobre ho parlato dei temi caldi della psicoterapia, ossia un po’ la mia zona di comfort, a Novembre passo decisamente in direzione opposta: vi parlo di quattro temi “scomodi”. Scomodi perché, nel quotidiano, sono difficili da affrontare o perché generano emozioni e modi di pensare contrastanti. In realtà, ci sarebbero infiniti temi così, ma ne ho scelti quattro: l’aborto spontaneo, la malattia oncologica, genitorialità omosessuale e abuso sessuale.
Di questo tema io so poco o nulla. Ho chiamato quindi in aiuto una delle mie colleghe più care (e non sapete quanto io sia felice di presentarvela!), che lavora da tempo in questo ambito: la dott.ssa Elena Pagani Bagliacca. Ci siamo dette che ci sarebbero tante, tantissime cose da raccontare.
Abbiamo deciso di partire dalle emozioni che la malattia oncologica fa scaturire e lo abbiamo fatto prendendo quattro punti di vista differenti (ma forse non così tanto): paziente, caregiver, società e psicologo.
Giusto. Io questa volta mi sono limitata a scegliere l’immagine in evidenza e a caricare questo articolo! Tutto il lavoro che vedrete da qui in poi (e per tutta la settimana sui social) è della dott.ssa Pagani.
Prima di partire, vi lascio il link ai video del Progetto Giovani, cui la dottoressa Pagani ha partecipato. Dovreste sentire con che affetto ve lo racconta…! I ragazzi raccontano la loro esperienza per aiutare chi sta affrontando il processo i cura e lo fanno attraverso dei tutorial, anzi dei TUMORIAL (dai, è geniale!).
La malattia oncologica: il punto di vista del paziente
Quando la malattia irrompe nella propria vita tutto viene messo in discussione. Crolla ogni certezza, fisica, psicologica, sociale e spirituale. Ciò che prima poteva esser dato per scontato oggi deve esser rimesso a bilancio, spesso dovendovi rinunciare. “Nessuno può capire cosa si prova finché non ci si passa”; è questa una delle frasi più ricorrente nei miei dialoghi con le persone in cura, insieme alla straziante domanda “ma quindi se faccio la chemio perderò i capelli?”.
Nello specifico, lo stato d’animo di rabbia, dolore e angoscia derivato dalla perdita dei capelli è solitamente poco compreso dalla maggior parte: “ma stai tranquilla che sarai bella lo stesso!” dicono i famigliari, o ancora “ma signora poi i capelli ricrescono” ribattono i curanti. Perdere i capelli è, invece, lo stigma sociale con cui viene identificata una persona col cancro. Se ognuno di noi, infatti, ora chiudesse gli occhi e provasse ad immaginare un malato oncologico, come lo rappresenterebbe? Certamente pelato/a. Il paradosso, però, è che i capelli cadono non per la malattia in sé, ma proprio per la sua cura, rendendo questa realtà ancora più difficile da accettare.
Eppure, nonostante la fatica iniziale, lo shock, la paura e l’angoscia che connotano la fase di diagnosi, successivamente una persona trova la forza di reagire. E la trova sul serio, arrivando spesso a stupire anche se stessa. Certamente, vi sono dei momenti estremamente duri, come il prendere atto di alcuni possibili esiti chirurgici (amputazioni o asportazioni invasive), la chemioterapia ed i suoi effetti collaterali, la paura che la malattia possa tornare. Ciononostante, la medicina sta facendo quotidiani progressi ed oggi il cancro è a tutti gli effetti una malattia curabile.
La malattia oncologica: il punto di vista dei caregiver
I caregiver (da “care” e “giver” – colui/lei che si prende cura) sono solitamente i famigliari più vicini al malato e, pertanto, sono quelle persone che debbono portare sulle loro spalle un doppio peso emotivo: devono “tenere duro” per il loro caro e, al contempo, gestire la loro angoscia e il loro dolore.
Sono loro, poi, ad essere chiamati a svolgere importanti ed onerosi compiti, come accompagnare i pazienti in Ospedale o nei luoghi di cura, confrontarsi con lo staff medico rispetto alle terapie e all’andamento della malattia, gestire e supervisionare l’assunzione corretta dei farmaci, occuparsi eventualmente dell’alimentazione ed igiene personale. A queste mansioni si aggiunge il portare avanti il “resto della vita al di fuori” della malattia, quindi la casa, la famiglia e il lavoro.
E’ più che normale, quindi, vivere momenti di tensione, avere pensieri come “basta, non ce la faccio più”, sentire la pesantezza della situazione e della gestione del malato “so che non si dovrebbe pensare una cosa del genere quando un genitore è ammalato, ma ogni tanto vorrei scappare e pensare solo a me”.
Nonostante tutto questo, spesso il carico emotivo dei famigliari è sottovalutato. Ci sono persone, prime tra tutte le mamme quando ad ammalarsi è un figlio, che dedicano interamente la loro vita alla sua cura, dimenticandosi di avere dei bisogni, delle fragilità…di essere umane. Queste persone vanno sostenute nel comprendere che questi percorsi sono più simili a maratone che a corse di velocità: occorre ricaricare le batterie, dosare la giusta energia, concedersi della pause per poter arrivare insieme al traguardo finale. È perciò importante ritagliarsi uno spazio e dedicare del tempo a se stessi, magari in compagnia di amici con cui provare a svagarsi.
“Come si fa a stare accanto a chi sta vivendo questa malattia?”
Come abbiamo appena detto, spesso il ruolo ed il peso, emotivo e pratico, di chi sta accanto ai malati viene sottostimato. Innanzitutto quindi, occorre legittimarsi a pensare che sia un momento difficile. Da questo, si capirà che non esiste modo migliore se non quello di essere presenti, nel modo in cui si riesce, continuando a dimostrare il proprio affetto e la propria vicinanza, mantenendo il più possibile “normalità” all’interno della relazione, con un po’ più di accortezza e pazienza nei momenti più difficili. Non serve trovare le parole esatte, spesso basta semplicemente esserci.
“Ho paura ma non posso dirlo a nessuno”
Il sostegno psicologico serve anche a legittimare le persone a tirare fuori le loro paure ed angosce più profonde, spesso taciute per non far spaventare chi sta intorno. Sembra incredibile ma capita spessissimo che i pazienti debbano “essere forti” per non far preoccupare la famiglia o gli amici. Aiutarli, invece, a far emergere le paure è di grande importanza. E’, infatti, legittimo aver paura. E le paure possono essere molteplici: del dolore, di perdere i capelli, di far soffrire i propri famigliari, della recidiva fino a quella più “indicibile, ovvero la paura di morire. D’altronde questa malattia costringe a fare i conti con il senso del tempo, con i limiti fisici ed il senso di precarietà e sospensione di ogni forma di progettualità. Lo spazio di terapia può essere il luogo adatto per dar voce e normalizzare anche a questa paura, provando ad elaborarla insieme.
La malattia oncologica: il punto di vista della società
E’ difficile ormai trovare persone che, in casa, tra le amicizie, a lavoro, non si siano imbattute con questa realtà. Questo tema, purtroppo, riguarda tutti noi. E tutti possiamo fare qualcosa. Troppe volte i pazienti raccontano della fatica che fanno a “vivere la normalità”. Certamente in parte è dovuto ad una nuova realtà a cui sono costretti a sottostare, fatta di limitazioni, esami, isolamento, ospedalizzazioni e terapie.
L’altra parte però è dettata da una fatica generale a stare accanto a chi sta vivendo questa malattia. Si ha paura di dire la cosa sbagliata e allora ci si allontana; si guarda con occhi di compatimento – “oh poverino”- che fanno innervosire; si cambia e la quotidianità di una risata o di una birra diventa una telefonata di circostanza. Invece quello che serve è essere se stessi, continuare a comportarsi come sempre, con la sensibilità di comprendere i momenti più delicati.
Anche a scuola, compagni e insegnanti, devono provare a mantenere il più possibile i contatti con gli alunni, momentaneamente alle prese con verifiche ben più complicate, e così i colleghi di lavoro. Non è facile ma potrebbe alleviare il senso di alienazione dei malati e alleggerire i pensieri di colpa o di inadeguatezza di chi si allontana per timore di non essere in grado di sostenere la situazione.
In ultimo, un capitolo molto complesso riguarda il rapporto “medico-paziente”. Spesso, infatti, i malati, seppur immensamente grati ai loro curanti, lamentano un atteggiamento sbrigativo e spesso teso. Allo stesso tempo, i medici faticano a far capire come sia difficile gestire ogni giorno la responsabilità del loro lavoro senza farsi sopraffare dal dolore, dall’affetto o dalla rabbia circostante. Un aiuto che può sostenere i pazienti pur mantenendo l’integrità dei curanti potrebbe essere quello di sbottonare ogni tanto il camice bianco, rivolgendosi con interesse, umanità, sensibilità; questo semplice atteggiamento può far la differenza non solo nella cura della malattia, bensì nella vita dei pazienti, che imparerebbero così a conoscere la persona oltre che il professionista.
La malattia oncologica: il punto di vista dello psicologo
Sia i pazienti che i caregiver attraversano periodi davvero difficilissimi, “i peggiori della propria vita”.
Dal mio punto di vista, poter accedere a servizi di sostegno psicologico rappresenta una risorsa molto importante per affrontare questi percorsi, poiché si viene accompagnati da professionisti che cercano di trovare insieme la migliore chiave per affrontare ogni specifica situazione.
Oltre, infatti, a quello che i pazienti e famigliari vivono e che ho provato a riassumere pocanzi (non basterebbero, in realtà, interi manuali per descriverlo), vi sono poi delle questioni che spesso potrebbero essere complicate da gestire autonomamente, come la comunicazione della malattia di un genitore (o dei nonni) ai propri figli (soprattutto se piccoli), la gestione della fase terminale, la malattia di un bambino o un adolescente, e molto altro.
Infine, con il dovuto rispetto, vorrei sottolineare anche un aspetto di luce che non manca mai quando ci si ferma a riflettere, ovvero la possibilità di prendere consapevolezza delle molteplici risorse e dei punti di forza che ogni persona scopre di avere proprio mentre combatte la sua battaglia più difficile.
Dott.ssa Elena Pagani Bagliacca
Grazie di cuore alla dott.ssa Pagani Bagliacca. Come vi dicevo, sono contenta di avervela presentata e le sono ultra-grata per aver acconsentito a raccontare un po’ la malattia oncologica.