Oggi vi parlo di un fenomeno che mi capita di vedere sempre più spesso in studio: la crisi post-partum nei papà. Non possiamo parlare, ovviamente, di vera e propria depressione post-partum, ma c’è un fenomeno molto simile che, nella mia esperienza, arriva un pochino più avanti nei mesi.
Se nelle donne, i sintomi “depressivi” possono notarsi già nelle prime settimane dopo il parto, negli uomini questi sintomi si notano quando il bambino ha già qualche mese (o, addirittura, ha già superato l’anno). In pratica, i sintomi “depressivi” emergono quando il papà inizia davvero a fare il papà. Certo, oggi come oggi, i padri sono molto attivi (si spera!) già nelle primissime fasi: cambiano pannolini, danno pappe, si alzano la notte. Psicologicamente, tuttavia, si ha l’impressione (e non è totalmente sbagliata!) che nei primi tempi sia la mamma la figura davvero indispensabile. Il bimbo sembra accorgersi del papà un pochino più avanti ed è proprio quando iniziano le prime interazioni e i primi veri scambi “consapevoli”, che possono scattare alcuni segnali di crisi personale.
Ci tengo a precisare una cosa importante: molti papà che si rivolgono a me non hanno i sintomi di una vera e propria depressione (alcuni sì, purtroppo), ma sembrano molto appiattiti: non riescano a trovare più entusiasmo in niente e non capiscono perché. Quando li si incontra per la prima volta, si ha l’impressione che non sappiano più bene chi siano e dove stiano andando. Proprio come è capitato a Stefano*, di cui vi racconto oggi. Alla fine della sua storia vedremo insieme alcuni punti importanti, che scatenano il malessere di questi neo-papà.
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* Come sempre, rispetto la privacy dei miei pazienti. In questo caso, non solo il nome è di fantasia, ma anche la storia. Ho unito alcune cose che accomunano i papà che bussano alla mia porta con sintomi simili a quelli di una depressione post-partum, ma senza far riferimento ad alcuna storia specifica.
La depressione post-partum negli uomini: la storia di Stefano
Al primo colloquio Stefano appare molto appiattito. Ecco, sì, lo definirei così: appiattito. Non lo trovo davvero triste,né davvero depresso, ma allo stesso tempo non mostra alcuna altra emozione, né rabbia né gioia. Niente. Siede sul mio divano e mi spiega, con semplicità, che da un po’ di tempo a questa parte non ha più voglia di fare nulla. O, meglio, forse la voglia potrebbe anche esserci, ma si sente bloccato.
Stefano mi fa già tenerezza!
Tu, però, dannazione, potresti fare un passo indietro
e darci qualche informazione in più?
Le basi, dottoressa, le basi!
Giusto!
Stefano ha 35 anni, nella vita lavora come informatico e un anno e mezzo fa è diventato papà di uno splendido bambino di nome Marco ( so che è splendido perché mi ha mostrato la foto!) . E’ sempre stato uno con molti interessi, Stefano. Negli anni dell’università collaborava con il giornalino della facoltà, scrivendo di mostre, serate e altri eventi che potessero interessare il corpo studentesco, poi suonava la chitarra (“Ma niente di che, strimpellavo più che altro“) e faceva sport (“Ai tempi facevo Triathlon, oggi riesco a malapena a correre“). Va avanti negli studi senza problemi. In quegli stessi anni incontra Laura, sua coetanea, che studia Giurisprudenza. Mi spiega che Laura è sempre stata una tipa piuttosto carismatica, di quelle in gamba: “Non si capisce bene come faccia, ma lei riesce sempre a star dietro a mille cose. All’università aveva una bella media e nel frattempo lavorava. Oggi lavora, sta dietro al bambino, alla casa, alle amiche. Non le sfugge niente. Sì, certo, la sera è stanca, ma il giorno dopo sembra essersi magicamente ricaricata e riparte con i suoi mille impegni“. Mentre me lo racconta, scoppia a piangere. Poi si scusa, perché non è uno che piange volentieri in pubblico, Stefano. E’ sempre stato uno tutto d’un pezzo.
Dopo l’università Stefano e Laura decidono di andare a vivere insieme, in affitto. Lui trova subito lavoro come programmatore, lei inizia il praticantato per diventare avvocato e integra con qualche lavoretto. I primi anni sono faticosi, vivono principalmente con lo stipendio di lui, mentre lei arrotonda. Poi Laura fa l’esame di stato, diventa avvocato e inizia a lavorare. Pian pianino le cose iniziano ad andare meglio (“Mooolto pianino, ma eravamo tutto sommato tranquilli e sereni“). Pian pianino (o forse no?) Stefano mette da parte quelle che sono state le sue passioni giovanili e cerca di “fare l’uomo“.
Poco più di due anni fa, decidono di allargare la famiglia. Marco non si fa attendere, arriva senza troppi problemi. “Ero felice eh? Lo giuro, ero davvero felice. Allo stesso tempo, però, ho iniziato ad avvertire una forte paura. Cioè, all’inizio non era paura, forse era solo un po’ di agitazione. E’ passata presto. Poi sono iniziate le agitazioni dei primi tre mesi, i soldi da mettere da parte per i diversi acquisti, in un battito di ciglia i nove mesi son passati et voilà: è arrivato Marco!”
Chiedo: “Come sono stati i primi mesi?”
Stefano: “Il primo momento indescrivibile. Lo guardavo e pensavo: E’ davvero mio figlio, l’ho fatto io, lo abbiamo fatto noi. Incredibile! Poi non saprei dirlo…sicuramente una rivoluzione…non c’era più il tempo di pensare a niente e di far niente, nemmeno per parlare tra di noi. La sera crollavamo sul letto esausti e comunque non c’era tempo per riposarsi perché poche ore dopo Marco si sarebbe svegliato per essere allattato“.
I primi mesi passano. Ne passano altri ancora in mezzo. Stefano prova a tenere viva qualche passione. Una sera a settimana, va a bere la birra con gli amici, ogni tanto esce a correre. La playstation, invece, lo osserva immobile dalla scrivania. “Il fatto è che mi sento in colpa. Ogni volta in cui faccio qualcosa fuori da casa o mi prendo un momento di pausa, io sento che non dovrei farlo. Laura ha smesso di fare tutto, dedica anima e corpo al lavoro e alla famiglia. Io non sono d’accordo, ma quando mi prendo uno spazio o litighiamo io e lei o mi sento appesantito io da solo“.
Nel tempo, si è fatta largo in lui questa sensazione di inadeguatezza, un senso di blocco, una difficoltà a godersi qualunque cosa faccia. Ed eccolo seduto sul mio divano.
Crisi post-partum nei papà: perché?
Per amor di sintesi, riassumo qui sotto quello che è successo a Stefano e che, più in generale, accomuna molti papà che stanno vivendo una crisi post-partum.
1. qualcuno mi spieghi come si fa il padre!
Si fa fatica a capire quale sia il ruolo di padre al giorno d’oggi. I ruoli maschili e femminili si sono molto rivoluzionati e, soprattutto, gli uomini non hanno dei veri e propri modelli a cui far riferimento nelle generazioni precedenti. Se si guardano indietro vedono papà meno propensi allo scambio affettivo e all’aiuto in casa. Certo, erano padri tutto d’un pezzo (“Mai visto piangere mio padre!“), ma oggi non sarebbero più ben accetti. Non avere un ruolo ben definito a cui far riferimento, crea confusione e ostacola il processo con cui si fa spazio alla nuova identità di padre.
Spesso, il non sapere chi siamo ci porta ad appiattirci ed ecco il sintomo.
2. Crescere vuol dire abbandonare le passioni?
Le donne lo fanno: crescono a tagliano via quasi tutte le proprie passioni e i propri spazi liberi. Si lamentano per questo e per il fatto di non aver più spazio per se stesse, ma allo stesso tempo ritengono che non ci sia altra possibilità. “Essere compagne (o mogli) e madri significa essere votate al sacrificio!” Questo viene, talvolta, sfogato attraverso sintomi di ansia, stress e fame nervosa.In altri casi, come “semplice” rabbia.
Gli uomini lottano un po’ di più in difesa dei propri spazi liberi, ma molti capitolano quando arriva un figlio. Se sei una donna (lo sono anche io del resto!) starai certamente pensando che loro, gli uomini, non fanno abbastanza sacrifici (!). Talvolta, è vero, il peso maggiore è sulle spalle delle madri, ma gli uomini non riescono comunque a vivere con serenità le proprie passioni. E’ come se fossero costantemente divisi tra due frecce che li punzecchiano: dovere e piacere. E ricordate cosa accade quando queste due frecce si scontrano? Buuum. Ed ecco i sintomi di cui parlavamo nella storia di Stefano (con molte varianti: appiattimento, ansia, attacchi di panico, forte stress…).
Crescere è un lavoro difficile, è un continuo rincorrersi tra quello che vorremmo fare e quello che dovremmo fare. Lo vediamo spesso in adolescenza, ma in molti casi lo si scopre proprio facendo il salto generazionale e diventando genitori.
3. Uno spazio per sé e per le proprie emozioni
La flessibilità è la migliore delle terapie.
Ormai lo sapete, lo ripetono anche i muri qui dentro. La cosa migliore è la via di mezzo. E’ difficilissimo e diventa quasi impossibile quando si ha un figlio, ma è necessario per il benessere mentale proprio e altrui: serve alternare i doveri con alcuni spazi per sé.
Quando un figlio è piccolino è molto difficile, catalizza ogni attenzione e si arriva a sera che sembra quasi di non aver vissuto veramente, se non dentro a una bolla. Qui subentra la coppia: parlare, ritagliarsi piccoli ma preziosi spazi, alternarsi sono azioni fondamentali nei primi mesi. Man mano che il neonato cresce, poi, è fondamentale riprendere a vivere anche spazi per se stessi. Saranno piccoli, saranno certamente minori rispetto ai doveri, ma saranno fondamentali per non cadere in un ostato catatonico o ansioso! =)
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