Oggi vi propongo un’intervista sotto una forma un po’ diversa dal solito.
Verso la fine del percorso, in genere quando ci rendiamo conto che le cose vanno meglio e possiamo dilatare il tempo tra una seduta e l’altra, propongo ai pazienti di fare un bilancio. Si tratta di un seduta in cui mettiamo nero su bianco il cambiamento (e quello che ancora è un obiettivo da raggiungere). Le domande che propongo ai pazienti sono: “Com’ero quando sono arrivato?“, “Come sono oggi?” e “Cosa manca ancora?“.
Così ci rendiamo conto dei passi fatti e dei passi che sono ancora da fare. C (47 anni) ci racconta il suo bilancio come fosse una pagina di diario che ha scelto di condividere, sperando possa essere utile “per dare una sonora svegliata a qualcun altro” (parole sue!).
Il momento topico
Quel momento ce l’ho fisso nella testa. Mi stavo lamentando di non so quale vicenda con non so quale persona e la dottoressa mi ha praticamente interrotta: “Perché ha così bisogno di essere una vittima sacrificale?“.
Sul momento sono rimasta di sasso. Non ero abituata al fatto che mi interrompesse e, di norma, non lo faceva mai a gamba tesa. Fino a quel momento, aveva risposto a ogni mia lamentela con comprensione. Era stata una delle poche persone, forse l’unica, che sembrava aver capito il mio disagio, che non aveva respinto la mia rabbia alzando gli occhi al cielo e ora entrava così a gamba tesa tra i miei farfugliamenti.
Lì per lì mi sono arrabbiata: ma come si permetteva? Ma cosa ne sapeva? Passavo la mia vita a servire gli altri e di certo non mi divertivo a dovermi sempre mettere così in secondo piano. Avevo rinunciato a tutto per gli altri e ora arrivava lei a dirmi che mi volevo sentire una vittima sacrificale? Ero furiosa. Non riuscivo a smettere di pensare a quelle parole.
Nei sette giorni successivi, le sue parole continuavano a rimbombarmi in testa, ma ho iniziato anche a far caso a tutte le volte in cui mi lamentavo. Le volte in cui non chiedevo, per poi poter rivendicare di non essere aiutata e di aver dovuto fare tutto io. Mi son resa conto che, oltre alla rabbia e alla pesantezza, provavo anche soddisfazione in questo. Poter cogliere gli altri in fallo, farli sentire delle merdine per non esserci stati mi faceva sentire bene, oltre che arrabbiata. Al contrario, quando gli altri mi anticipavano sulle cose da fare (ad esempio, se tornavo a casa dal lavoro e trovavo già cucinato) mi sentivo ancora più incattivita. Sentivo nascere il bisogno di smontare tutto (con il tempo, con la dottoressa lo abbiamo tradotto in tante emozioni: paura, spavento, rabbia). Quello che avevano cucinato non andava bene oppure mi lamentavo di altro. Insomma, comunque ciò che avevano fatto non era soddisfacente, non era abbastanza.
Il risultato era un’immensa rabbia da parte loro e una costante insoddisfazione da parte mia. Avevo bisogno di rimanere insoddisfatta. “Non sei mai contenta. Non è mai abbastanza quello che facciamo per te” mi dicevano marito e figli. Ed era vero. Per me non era mai abbastanza. Avevo ragione ad arrabbiarmi. Sentivo di avere ragione.
Vittima. La dottoressa mi aveva chiamato vittima e io odiavo le vittime, sempre lì a crogiolarsi nel loro dolore, come se gli altri dessero volutamente addosso. Io non ero così. Eppure mi aveva insinuato il dubbio.
All’incontro successivo, riprendemmo l’argomento. Io mi sentivo ancora furiosa e poco capita. La dott.ssa mi disse: “Può essere che mi sia sbagliata, nel caso me ne scuso. Però provi a farci caso: nel quotidiano, quante volte le capita di sentirsi bistrattata, non capita dagli altri? Quante volte pensa che si deve occupare lei di tutto perché gli altri non ci pensano, non ci arrivano oppure, quando fanno le cose, le sembra che sia comunque sbagliato e lei le deve rifare da zero? Voglio dire: se capita una volta ogni tanto ok, ma se capita ogni giorno e più volte al giorno, forse è più una sua dinamica e lì dobbiamo capire perché. In quel caso, infatti, questa sua tristezza (che secondo me è rabbia) arriva da dentro, non è causata dagli altri. In quel caso, semplicemente, lei è impossibile da soddisfare e dobbiamo capirne il motivo. Ma serve a lei, perché così è evidente che sta male e non può andare avanti a sentirsi così. E’ ingiusto.Cosa ne pensa?“.
Disse questa cosa con quel suo sorriso che proprio non ti vine da pensare che ti stia dicendo qualcosa contro. La dott.ssa ha quella capacità di farti sentire comunque capita anche se ti sta dando una martellata sul piede. Con quelle parole mi ha fatto capire che comunque era dalla mia, che lo scossone me lo aveva dato per me.
E nella settimana successiva provai a farci caso: avevo davvero bisogno di essere insoddisfatta? Avevo bisogno di essere una vittima? Ma perché? Cosa ci guadagnavo?
Com’era quando è arrivata?
Ci abbiamo lavorato. Tanto. Ve la riassumo così, come abbiamo fatto durante l’ultima seduta: avevo bisogno di sentirmi vittima perché così non avrei dovuto pensare ai miei bisogni. Tema del risarcimento, lo ha chiamato la dott.ssa. Significa che sentivo sempre di dover essere risarcita per qualcosa e che fossi costantemente a credito con gli altri, con la vita. Il mondo era stato ingiusto nei miei confronti.
Vittima implica doversi occupare degli altri e non aver tempo per sé, poi me ne lamentavo, ma comunque non dovevo pensare al tempo per me, a quello che avrei voluto.
Anzi, quello che avrei voluto lo sapevo benissimo, ma non mi davo la possibilità di mettermi in gioco e, soprattutto, la responsabilità del fallimento nel caso in cui le cose fossero andate storte. Avere un marito sbagliato, non aver scelto il lavoro che facevo, non viaggiare, occuparmi solo della casa e dei figli mi faceva ribollire il sangue, ma mi garantiva la possibilità di dar la colpa a quello che avevo intorno e non mettermi in gioco. Io ero TERRORIZZATA dall’idea di mettermi in gioco.
E così facevo anche nelle più piccole cose quotidiane: c’era un evento che mi interessava? Mi convincevo che, con tutto quello che c’era da fare tra casa e lavoro, io non ci potessi andare o che nessuno avesse davvero voglia di accompagnarmi (nemmeno glielo chiedevo!). “Non ho tempo” era la mia scusa migliore e davo la colpa agli altri per quel tempo sempre occupato. Non avevo tempo per colpa del lavoro, del marito, dei figli, delle incombenze quotidiane. Vivevo la vita arrabbiata con gli altri: la mia famiglia, la mia vicina, il panettiere..sentendoli ingiusti ed egoisti, ma sotto sotto ero arrabbiata con me stessa perché ero una codarda. Non ero capace di mettermi in gioco e fare le cose di cui avevo bisogno. Di più, nemmeno mi rendevo conto di cosa avessi bisogno.
Come sono oggi?
Ogni tanto mi arrabbio ancora, ma non mi arrabbio più a priori: prima ero arrabbiata e cercavo dei capri espiatori da incolpare per avermi fatta arrabbiare. Ora, se mi arrabbio, è davvero una conseguenza di qualcosa che è successo. I miei polmoni sono liberi da quella rabbia a priori.
Dopo quella seduta, con la dott.ssa abbiamo fatto un grosso lavoro per capire che cosa volessi. E’ stata una seconda martellata sui piedi: mi sono resa conto di non saperlo.
Ero sempre stata convinta di sapere benissimo cosa avrei fatto se fossi stata libera, ma quando mi sono trovata libera davvero non sapevo cosa avrei voluto fare. Ci sono rimasta di merda. Sapevo perfettamente cos’avrebbero voluto i miei figli per cena, anche senza chiedere, ma non sapevo cos’avrei voluto io.
Siamo andate per tentativi: mi impegnavo per avere del tempo per me e provavo a riempirlo con varie cose da fare. Già ritagliarsi del tempo senza sentirsi in colpa è stato un traguardo. Il secondo traguardo è stato chiedere agli altri se avessero voglia di fare cose con me o per me (questa è stata difficilissima, faccio ancora fatica).
Ho passato mesi a chiedermi incessantemente: “Cosa mia andrebbe?“. Pian piano le risposte sono arrivate. E’ stato un graduale percorso di conoscenza con me stessa.