Questo post è il primo della rubrica “Perché lo psicologo…?”. TeaPost dopo TeaPost provo a rispondere alle vostre domande sulla terapia.
Parto dalla questione: “Non mi trovo più con il mio psicologo, voglio cambiarlo!“
Le motivazioni che seguono sono le più disparate:
- Siamo fermi
- Non mi sento capito
- Mi annoio
- Cambia troppo spesso giorno e orario degli appuntamenti
- Mi sembra poco interessato a quello che dico
- Mi sento giudicato
- Non mi ci trovo più
- Sono arrabbiato con lei
- …
Perché è meglio aspettare un po’ a cambiare psicologo?
In genere, io “rimando al mittente” con una spiegazione principale: quello che accade in terapia è un riflesso di quello che avviene fuori. Soprattutto i momenti di blocco e difficoltà spesso raccontano molto del paziente e delle sue relazioni quotidiane. Quello su cui si inciampa in terapia, ci dice molto anche degli inciampi che ci sono nella vita di tutti i giorni.
Quindi, consiglio sempre di provare a parlare con il proprio terapeuta prima di cambiare.
Ne avete parlato con il terapeuta?
Lo so, è difficile, ma è fondamentale. La terapia, dicevamo, è un riflesso di quello che avviene fuori, ma ha una marcia in più: permette di parlare di quello che sta succedendo, di fermarsi e capire il motivo di quello che paziente e terapeuta provano. Quante volte lo facciamo in famiglia o con gli amici?
Quasi mai, perché parlarne con il diretto interessato è molto difficile. Tuttavia, quello che proviamo è spesso un elefante nella stanza: sa voi sia la persona con cui vi interfacciate sentite qualcosa, ma finché non ne parlate rimarrà lì a “infastidire” la relazione, senza però andare da nessuna parte.
Superata la difficoltà iniziale, quando si riesce a dire quel che si prova, si aprono nuovi mondi.
E il terapeuta cosa risponde?
Toglietevi dalla testa che il terapeuta possa essere in difficoltà o odiarvi per aver espresso la vostra. Raccontategli tutto quello che provate, da cosa nasce il vostro desiderio di andarvene, di cosa avevate paura prima di parlarne, cosa pensate potrà accadere ora. Esprimete liberamente tutte le emozioni che sentite: siete arrabbiati con lui? Siete preoccupati dal fatto che vi possa abbandonare? Non vi sentite più al primo posto nei suoi pensieri? Lo odiate? Diteglielo!
Anche il terapeuta prova delle cose e quelle cose sono il riflesso di quello che provate voi (si chiama controtransfert in gergo tecnico). In che modo? A volte prova le vostre stesse emozioni, altre volte si sente come voi fate sentire le altre persone della vostra vita.
A me sono capitate cose sorprendenti con i pazienti (ve le racconto in punta di piedi e a piccole dosi, perché ho molta cura di quello che i pazienti mi raccontano e non amo spiattellarlo ai quattro venti): mi sono sentita irritata, stufa, annoiata, menefreghista, minacciata, impaurita, intenerita, impotente…
Molte volte queste emozioni mi stupiscono e proprio questo è un segnale che sta accadendo qualcosa. Di solito, al momento opportuno, lo condivido con il paziente: “Sa, ho l’impressione di sentirmi irritata quando mi racconta queste cose, lei come si sente?” A volte il paziente è irritato quanto me oppure casca dal pero, ma riflettendoci pensa che anche i suoi amici si sentano irritati quando fa così.
Oppure: “Fatico molto ad andare avanti. Mi sento impotente, con le spalle al muro. Ho l’impressione che lei prenda le cose e me le cestini. Lei cosa ne pensa? Cosa sta succedendo? Io mi sento in ansia, come se camminassi sulle uova“.
O ancora: “Quando fa così, sento quasi l’istinto di abbracciarla e proteggerla. Mi sale una tenerezza infinita!”
Perché il paziente ha voglia di andarsene?
Ovviamente, ci sono tante possibilità. Vediamone insieme qualcuna e qualche possibile evoluzione.
Siamo fermi
Paziente: “Siamo fermi da un po’, mi chiedo se abbia senso andare avanti”
Terapeuta: “Vero. Non so lei, ma io mi sento frustrata, irritata, impotente. Tuttavia, ho idea che anche questo essersi fermati abbia un senso. Non ci si ferma per caso. Vediamo un po’ cos’è successo, quando si è fermato, le va?”
Spiegazione: in genere, ci si ferma quando ci sono delle resistenze, ossia quando si sta affrontando qualcosa di particolarmente spinoso, che fa paura affrontare. Oppure quando si è di fronte a un tema caldo per il paziente. Parlandone, vien fuori che anche altre volte, nella vita ci si è bloccati su questioni analoghe.
Non mi sento capito
Terapeuta: “Ci sono momenti particolari in cui non si è sentito capito? In quali momenti al contrario si è sentito più capito? Provi a focalizzarsi su quella sensazione: in quali altri momenti della vita si è sentito allo stesso modo?“
In genere, anche qui, il terapeuta rimanda come si sente lui. Un esempio potrebbe essere: “Anche io ho la percezione di faticare a capirla eppure ho la sensazione che se glielo dicessi lei si offenderebbe a morte, per cui non trovo mai il coraggio per dirglielo”. Poi si invita il paziente a dire come si sente davanti al vissuto emotivo del terapeuta. Gli altri intorno a lui potrebbero provare qualcosa di simile?
Spiegazione: è possibile che il terapeuta non capisca il paziente, ma è l’unico? Cosa concorre al non sentirsi capiti? Si può fare qualcosa? Ma, soprattutto, cosa si sente quando non ci si sente capiti? Rispondere a queste domande può riavvicinare paziente e terapeuta, ma soprattutto aiutare il paziente nella sua vita quotidiana.
Cambia spesso giorno e orario degli appuntamenti
Il terapeuta cerca di fare caso a come si sente lui davanti a quel cambio: si sente in ansia perché sente che il paziente potrebbe arrabbiarsi? E’ un paziente con cui sente di “poter fare quello che vuole”? Teme di ferirlo e aspetta sempre prima di cambiare appuntamento?
Si parla con il paziente di questo, poi si cerca di capire come si senta. Cosa lo tocca sul vivo? Qual è il punto? L’imprevedibilità, la sensazione di essere l’ultima ruota del carro, la paura di essere abbandonato, l’etica (se si dà un appuntamento, non si cambia).
Scommettiamo che quella sensazione si ritrova anche in altri momenti della vita?
I momenti difficili sono quelli più preziosi
Mentirei se vi dicessi che noi terapeuti viviamo tranquillamente questi momenti. Come capita al paziente, anche noi ci agitiamo, ci preoccupiamo, ci irritiamo. Però abbiamo a mente che tutto quello che si prova in questa stanza ha un valore e un significato.
Allora è bene guardare in faccia l’elefante nella stanza e parlarne. Questo è di per sé terapeutico: quelle emozioni il paziente le avrà provate un’altra marea di volte nella vita, ma (forse) per la prima volta può parlarne apertamente e trovare davanti a sé una persona disponibile ad ascoltare e a mettersi in discussione.