Racconto di uno, nessuno, centomila aborti (spontanei)

Racconto di uno, nessuno, centomila aborti spontanei

Se a Ottobre ho parlato dei temi caldi della psicoterapia, ossia un po’ la mia zona di comfort, a Novembre passo decisamente in direzione opposta: vi parlo di quattro temi “scomodi”. Scomodi perché, nel quotidiano, sono difficili da affrontare o perché generano emozioni e modi di pensare contrastanti. In realtà, ci sarebbero infiniti temi così, ma ne ho scelti quattro: l’aborto spontaneo, la malattia oncologica, genitorialità omosessuale e abuso sessuale.

PREMESSA DEL 29.10.2020: ho scritto questo racconto a più riprese nel tempo. Sempre indecisa se pubblicarlo o meno. Quando ad agosto ho programmato il mese di novembre, avevo scelto di non inserirlo. Però ho continuato ad ascoltare storie di donne che avevano affrontato quest’esperienza e che soffrivano un po’ in silenzio e ho pensato di ritirar fuori quel racconto e dar loro voce e sostegno. Non siete da sole! Poi se ne esce la Polonia, qualche giorno fa, con le restrizioni sul diritto all’aborto e lì ho nuovamente vacillato. Temevo passasse per un’ulteriore voce contraria all’aborto. Tuttavia, se c’è una cosa per cui combatto sempre qui sopra e in terapia è il diritto alle sfumature: non esiste il bianco o il nero, possiamo difendere il (sacrosanto) diritto all’aborto, pur raccontando il dolore di chi lo subisce. Anzi, forse serve a maggior ragione, parlare di quel dolore, per dar voce alle donne che lo vivono.

Introduzione

L’aborto spontaneo è un tema di cui si parla e non si parla. Si comprende che sia doloroso, ma fino a un certo punto perché “tanto ci puoi ritentare...”. Questa frase, che fa tanto male più che consolare, non tiene conto del fatto che quel che si è perso, di un corpo che è stato violato (quello materno) e del dolore di quei genitori. Non vale il “chiodo schiaccia chiodo”. Dall’esterno esterno è un’entità informe, ma nella mente del genitore è una personcina che, pur nel suo essere millimetrica, rappresenta un bimbo. Su quel bimbo, fin dalle prime settimane, iniziano a depositarsi aspettative, fantasie, rappresentazioni, emozioni. Quando viene strappato via la faccenda è tutt’altro che semplice. Non è una semplice rimozione di un’appendice, vengono strappate via anche emozioni, rappresentazioni, fantasie e (anche se non realisticamente) speranze.

Ho incontrato, nella mia vita, decine di donne che avevano affrontato un aborto spontaneo. Tutte o quasi si sono stupite del fatto che riconoscessi quel dolore e che raccontassi loro quanto fosse diffuso, in realtà. Prendevano atto, solo in quel momento, che molte altre donne avevano provato le loro stesse vicende ed emozioni e che non fosse così sbagliato provarle.

Ho provato a riassumerle in un racconto (questa volta non me la son sentita di chiedere un’intervista!) che, appunto, annoda una, nessuna (perché il racconto è inventato) e centomila (perché di storie così ne ho ascoltate parecchie, nel lavoro e nella vita) storie di aborti spontanei.

Racconto di uno, nessuno, centomila aborti (spontanei)

Ero incinta di 10 settimane, lo avevamo cercato per qualche mese e poi finalmente il test aveva sentenziato “1- 2…”. Addosso un fremito di gioia e paura. Mi sentivo piacevolmente strana, ci siamo abbracciati piangendo. Qualche settimana dopo la prima visita: per un secondo, non di più perché è pericoloso, abbiamo sentito anche il cuore. Un’emozione incredibile. Abbiamo iniziato a fantasticare su di lui o forse lei. Ma secondo me era un lui. A chi avrebbe somigliato, che personalità avrebbe avuto, sarebbe stato certamente uno che amava dormire, un po’ testardo, ma simpatico. Ci eravamo proposti di non comprare nulla fino alla fine del terzo mese, ma le tutine mi strizzavano l’occhio dai negozi e gliele immaginavo già addosso. Avevo qualche nausea la mattina, ma ero felice. Inebriata di vita. Mi toccavo la pancia illudendomi di trovarla già un po’ più gonfia. Mentre i seni, beh quelli sì, lo erano davvero (e pure un po’ doloranti!).

Poi… Ricordo tutto di quella sera. Quando riapro il capitolo è come se tutte le emozioni fossero lì a guardarmi. Sono meno rumorose adesso, fanno meno male, ma mi rubano comunque un colpo allo stomaco e qualche lacrima. Era tutto il giorno che non stavo bene, avevo dei dolorini alla pancia e alla schiena, ma mi avevano detto che nel primo periodo è normale. Avevo letto parecchio sui rischi di aborto, ogni cosa mi faceva paura, figurarsi quei dolorini. Allo stesso tempo, però, cercavo di non fare troppo l’ansiosa.

Poi la sera, dicevamo, mentre sto cucinando sento un dolore più acuto alla pancia e una sensazione di bagnato in mezzo alle gambe. Corro in bagno. Sto perdendo sangue. Mi si annebbia la testa. Sento la paura crescere, ho un boato di nausea e questa volta so che non è per la gravidanza. E’ ansia. Mio marito rompe i miei pensieri e mi ricordo all’improvviso che anche lui è lì e che forse è coinvolto quanto me. Prende in mano la situazione: “Andiamo in Pronto Soccorso“.

La permanenza in quella sala d’attesa è snervante. Ho il cuore che galoppa a mille. I pensieri si annodano su se stessi, formano grovigli. Speranza e paure si alternano in una lotta senza vincitori. L’ingresso in sala visite assume contorni traumatici. E’ il Pronto Soccorso del reparto di ostetricia e ginecologia, hanno a che fare ogni giorno con donne come me, te le immagini empatiche, accudenti le persone che ti troverai di fronte…

Tutte così al primo figlio!” sentenzia la dottoressa appena spiego, con apprensione, quello che è accaduto “Signora ma cosa va in ansia a fare? Si calmi, che poi quando il bambino ce l’ha in casa come fa? Non ce la può fare così!“. Mi sento un’idiota. Forse ho sbagliato a venire.

Mi fanno sdraiare per l’ecografia e, per un attimo, ammutoliscono, perdono l’aria sarcastica. O almeno così mi pare. Io ho sempre il cuore che galoppa. Conosco il verdetto, ma mi aggrappo a qualunque pensiero positivo. Questi ultimi non fanno in tempo a cullarmi per qualche secondo, che subito mi giunge, lapidaria, la frase: “Signora non c’è battito…“. L’ho riascoltata centinaia di volte quella frase nella mia testa nei giorni successivi e ho chiesto anche conferma a mio marito, perchè magari il mio cuore che andava in pezzi ha mandato in pezzi anche la capacità di comprensione. Invece pare sia andata proprio così: non c’è dispiacere in quella voce, non è nemmeno piatta (che quasi potrei accettarlo da una che per lavoro vive queste situazioni ogni giorno). No, suona proprio accusatoria. Vorrei infilarglielo in gola quell’ecografo, urlando: “Avete visto? Ve lo avevo detto!“.

Ma mi rendo subito conto che vorrei tanto avessero avuto ragione loro, poco prima, a darmi dell’esagerata. Sarei tornata a casa arrabbiata, ma con il mio bimbo ben protetto nella pancia. Invece no, il mio bimbo con c’è più. Non ci sono più il suo carattere simpatico e la sua testardaggine. Svanite le tutine dalle sue gambotte. La tristezza inizia ad avvampami dentro, quasi senza lasciarmi il tempo di respirare. Non è tristezza, è dolore. Cerco mio marito con lo sguardo ed è uno sguardo vuoto. Lo conosco, so che da un lato anche lui vorrebbe prendere a sberle la ginecologa che, asciutta, sta continuando a spiegare cosa fare, come fosse una fastidiosa ciste da togliere. E’ il mio bambino. Sta parlando del mio bambino.

Mi illustrano diverse opzioni e, non so bene come, arriviamo a un raschiamento prenotato per il giorno dopo. Torniamo a casa la sera e… mi sento stordita. Mi sento una bara vivente che avvolge un bambino che non ha più battito. Piango finché non mi addormento, piuttosto esausta.

Non arrivi mai davvero preparata al raschiamento, credo. I medici e le infermiere che si occupano del mio sono più gentili e umani rispetto al personale del pronto soccorso. Sono io che mi sento rimasuglio di essere umano. Ti scavano nel corpo, ripulendo tutto, ma allo stesso tempo sembra portino via anche un pezzetto di te. È invisibile, nessuno se ne accorge. Nessuno può davvero capire, a meno che non ci sia passato.

È una sensazione che ho conservato nel tempo: nessuno può davvero capire ciò che stai passando, tu sei da sola. Anche se hai persone intorno che provano a darti forza, tu sei da sola. Cercando on-line – lo so che non si fa, ma in quei momenti vale tutto!- scopri che siete in tantissime. Esperienze così diverse, ma così simili in fondo. E lì trovi un po’ il diritto di soffrire.

Perché fuori tutti quelli che sanno dell’accaduto ti dicono: “Ma sì, ne farai un altro vedrai…”. Ma non è quello il punto. Non in quel momento. Certo, ti continui a chiedere se riuscirai mai ad avere un bambino, se c’è qualcosa di sbagliato in te. Ma quella frase, in quel momento, suona più come un invito a dimenticare il bambino che hai perso e a farlo in fretta. Il tuo dolore dà fastidio. O così pare.

Tu, da un lato, vorresti che quel dolore passasse, ma dall’altro ne hai disperatamente bisogno. Non vuoi dimenticare il tuo bambino. Quindi ti rincuora leggere che ci sono speranze di rimanere nuovamente incinta prima o poi, ma per ora ti interessa parzialmente.

I primi giorni ti svegli al mattino e senti subito un’ondata di pesante tristezza che ti avvolge. Arriva prima di qualsiasi cosa. Anche della consapevolezza. Poi ti ricordi perché stai così male, la tristezza torna a essere dolore e partono le lacrime.

Aborto…suona male anche la parola. Durante la giornata, i pensieri si rincorrono, ricamati con il filo dei sensi di colpa: sarà stata quella volta che ero così in ansia? O forse quella sera in cui mi sono arrabbiata troppo? Cerchi un motivo. E anche lì: da un lato hai bisogno di una ragione, perché quel senso di impotenza muta è troppo forte. Una colpa ti donerebbe qualcuno o qualcosa con cui prendertela e ne hai bisogno. Invece non c’è nulla, come quando provi a sbattere una porta e quella invece rallenta. Dall’altro lato i sensi di colpa ti schiacciano e allora è meglio che sia stata la selezione naturale. Ma forse avere una ragione ti aiuterebbe a star tranquilla per il futuro: se sai cosa non ha funzionato, puoi prevenire in qualche modo e invece sei in balìa del caso. Insomma, non sai nemmeno tu cosa sia meglio. Tremendo. Fatto sta che stai di merda.

Poi, a un certo punto, subentra la vita. Tu vorresti star sotto le coperte a crogiolarti ancora un po’ , ma lei ti impone di alzarti e sembra crudele. Più avanti capirai che serviva. Il dolore sordo dei primi giorni si mescola alla vita quotidiana. Ci sono momenti in cui, miracolosamente, riesci a non pensarci. Ogni tanto (spesso direi) quel malessere si insinua tra le crepe della giornata e, acuto, ti buca la pelle, ti toglie l’aria e ti sembra ancora di impazzire, ma un po’ meno di prima.

E inizia a farsi largo l’idea di riprovarci. All’inizio era impossibile, ma ora forse…Ci han detto che possiamo. Io me la sento, forse. E lì si ricomincia con una giostra di alti e bassi: il battito aumenta quando ci si avvicina alle mestruazioni, senti il cuore in gola per un giorno di ritardo, poi arrivano loro, inesorabili e rosse, ricordandoti tutto il dolore. Guardi le pance delle altre con disperazione e invidia.

Sembra che tutti siano capaci di procreare facilmente, tranne te. Ti senti in colpa a odiare le pance, ma non puoi farne a meno… “Perché? – Ti domandi – Cos’ho che non va?“. La gente sostiene che sia lo stress, che non devi pensarci. Facile a dirsi eh?! Tutti psicologi e ginecologi con le ovaie degli altri!

Ogni mese così e il tempo sembra dilatarsi. Da quanto ci stiamo riprovando? “Non molto” dice la realtà. Ma a te sembra un’eternità. Fino a quando il ritardo è un po’ più forte. Con timidezza vai ad acquistare un nuovo test di gravidanza e… è di nuovo positivo. C’è di nuovo qualcuno dentro di te e questa volta il mix di emozioni è più forte, la gioia e l’ansia fanno a gara a chi arriva primo.

Ascolti di nuovo il battito del suo cuore, ma questa volta sforzandoti di non affezionartici troppo. Le tutine, empatiche, cercano di non strizzarti l’occhio dalle vetrine. Ogni giorno ispezioni le mutande alla ricerca del più piccolo indizio che qualcosa non vada. Ma questa volta va tutto per il verso giusto e superi il primo trimestre. Tiri quasi un sospiro di sollievo, ma rimani vigile. Non ti fregano, stavolta. Fino a quando non inizi a sentirlo muoversi, sempre di più e, a quel punto, inizi a goderti un po’ il viaggio.

Quando in giro ti chiedono se è la prima gravidanza rispondi di sì, ma in cuor la risposta è “No!”. Non lo dimenticherai mai quel primo bimbo che hai perso, ma il dolore uscirà solo in momenti circoscritti. E quando finalmente lo stringerai tra le braccia sarà come se qualcuno avesse messo un cerotto su quella ferita. La osservi. Sai che rimarrà, ma gradualmente si trasformerà “solo” in una cicatrice.

About The Author

Alessia Romanazzi

Psicologa e psicoterapeuta. Aiuto le persone ad affrontare momenti di stress temporanei o prolungati. Insieme cercheremo la tua personalissima soluzione per superare il momento critico. Mi trovi in studio a Saronno e a Milano. Attraverso Skype in tutto il mondo!