“Voglio suicidarmi” è la frase che fa tremare le gambe a qualunque terapeuta (o almeno ai terapeuti con cui mi interfaccio e mi sono interfacciata nella vita).
È una frase che ha fatto tremare le gambe anche a me, più volte. Forse (anzi, togliamo il forse), fa tremare ancor più le gambe quando questa frase viene detta o anche solo annusata in famiglia o negli occhi di una persona cara. Nella testa si attiva la paura, la fregola di dover fare qualcosa in fretta, si ha paura di perdere la persona e allo stesso tempo ci si sente impotenti. Nella testa del terapeuta si accende anche la lampadina delle conseguenze penali e la confusione su come dobbiamo muoverci (su questo ci torno alla fine del TeaPost).
Oggi vi racconto come mi muovo in terapia, dinanzi alla frase: “Voglio suicidarmi”. Il mio obiettivo, oggi, è duplice: parlare di un tema, quello del suicidio, di cui si parla ancora troppo poco e dare qualche informazione rispetto a ciò che, spesso, si colloca sotto a una frase così forte.
Cosa si fa in terapia quando un paziente dice: “Voglio suicidarmi”
“Dottoressa, l’altra sera ho seriamente pensato che vorrei suicidarmi”.
Spesso, sono pronta, perché quel pensiero non arriva esattamente all’improvviso, ma germoglia nel tempo, fertilizzato da stati d’animo che rendono difficile vivere, che generano un disagio che pare insuperabile. Tuttavia, può capitare che dall’esterno, anche se si fa il mio mestiere e la persona che si ha davanti è un paziente che si vede da tempo, non si sia colto nulla e quella frase scarichi nella testa come un fulmine a ciel sereno.
Prima di dire qualunque cosa, il lavoro è dentro di me. Cerco di ricordare a me stessa il lavoro sulle parti. Ognuno di noi è fatto di parti, che in alcuni casi comunicano bene tra loro, in altri sono più dissociate e sembrano ignorare l’esistenza le une delle altre. In questo caso, ho davanti a me una persona che contiene (almeno) due parti: una parte del paziente vuole farla finita, perché pensa che morire sia l’unico modo per proteggersi dalla sofferenza, l’altra parte non vuole morire e cerca aiuto. Infatti, è qui davanti a comunicarmelo.
Le due parti di una persona che ha pensato di suicidarsi
Entrambe le parti della persona cercano sollievo dalla sofferenza, ma lo fanno in modi molto diversi:
- Una parte punta al suicidio, a farla finita per mettere a tacere la sofferenza;
- L’altra parte cerca aiuto, sperando che il cambiamento sia il sollievo alla sofferenza.
Quel che è certo, quindi, è che davanti a me c’è una persona che sta soffrendo, tutte le sue parti stanno soffrendo. La prima cosa da fare è dirglielo: “Cavoli, per arrivare anche solo a pensare una cosa del genere, la sofferenza dev’essere diventata davvero forte, insopportabile. È difficile anche solo immaginare come si senta…”.
Una frase simile, che ha l’obiettivo di esplicitare la sofferenza che c’ è dentro al paziente, mira a parlare a entrambe le parti, a far sentire loro che c’è un pezzo che le unisce e quel pezzo è la sofferenza e il loro obiettivo comune è smettere di soffrire. Su questo, le due parti sono d’accordo.
NOTA: so che il lavoro sulle parti può apparire strano dall’esterno, con una nota schizofrenica, di scissione. In realtà, è potentissimo e io lo consiglio a chiunque: pensarsi come fatti di parti, rende meno potenti e meno totalizzanti alcuni pensieri. “Non sono io in toto che voglio suicidarmi, ma è una parte di me. Una parte vuole salvarsi” questo toglie molto potere all’idea suicidaria.
Far parlare le due parti che vogliono smettere di soffrire
A questo punto, abbiamo il dovere di dar voce a entrambe le parti, entrambe hanno il diritto di esprimere la loro. Lo si racconta al paziente e si organizza insieme un dialogo tra le due. Sono dell’idea che sia molto importante poter dire ad alta voce parole come “morte” e “suicidio”, perché se ne parliamo, le dobbiamo pensare, diamo loro concretezza, le osserviamo come qualcosa che esiste, non come qualcosa che bisogna nascondere. Che poi, si sa, le cose nascoste continuano comunque a lavorare nell’ombra, ancor più indisturbate.
“La parte che vorrebbe suicidarsi alzi la mano. Eccola. Senti, mi racconti come mai? Quale parte sei? Cosa ti è accaduto? Raccontaci il vantaggio del farla finita. C’è di certo“. Do del Tu a questa parte, perché in genere è piccina, ben più piccola dell’età anagrafica del paziente. “La parte che vuole vivere, che vuole salvarsi è pregata, per il momento, di ascoltare senza interrompere, poi facciamo cambio e, stia tranquilla, che arriva anche il suo turno”. La parte che vuole salvarsi è più grande, adulta, possiamo usare il Lei.
Ascoltiamo insieme (io, il paziente e la sua parte che vuole salvarsi) le ragioni della parte che desidera suicidarsi, senza banalizzare ciò che racconta, ma osservando l’impatto emotivo che queste motivazioni possono avere. Una volta ascoltate le ragioni della parte che vuole farla finita, si fa cambio e si ascolta la parte che vuole vivere:
“La ringrazio molto per aver ascoltato in silenzio, so che non è facile vista l’urgenza e la paura di morire. Mi creda, parte che vuole salvarsi, la capisco, perché anche a me inizialmente è partita l’iper-attivazione, ma credo sia importante ascoltare. La parte che vuole farla finita ha la precedenza, perché è quella che vive in modo più forte queste sofferenze e non vede via d’uscita se non quella del suicidio. Ora veniamo a lei. Come mai vuole salvarsi? Ci racconta i vantaggi del continuare a vivere?“
E così il paziente ritrova anche la voce di quella parte di sé che non vuole farla finita, di quella voce che era rimasta un po’ in ombra a causa dei pensieri della parte suicidaria. Non è detto che questo dialogo sia risolutivo (anche se devo dire che spesso basta almeno a confinare l’urgenza e a darci tempo per lavorare senza l’ansia di un suicidio imminente).
Possiamo poi continuare in vari modi, sulla base di quello che le due parti ci hanno raccontato. In genere, chiediamo alla parte che vuole farla finita se è disponibile a concedere tempo, se ci sono altri modi, alternativi al farla finita, che possiamo percorrere. Cerchiamo un compromesso tra le due parti, costituiamo un’alleanza che tenga conto dei bisogni di entrambe: farla finita (non con la vita, ma con la sofferenza).
La terapia con il paziente che vuole suicidarsi
Questo è, più o meno, il modo in cui si svolge la seduta quando il paziente racconta di volersi suicidare.
Qualcuno lo fa alla fine della seduta, buttandola lì come informazione in appendice e tu terapeuta guardi l’orologio che segna inesorabile lo scadere del tempo e avresti voglia di tirargli tu il collo, dando una mano ai loro intenti… scherzo, ovviamente, ma nemmeno troppo, perché le cose dette sulla porta, a fine seduta sono infidissime e difficili da gestire. Quando passa l’emergenza e siamo in sicurezza, lo dico al paziente: “Porca miseria, ma anche lei, ma sulla porta mi dice una cosa del genere: ha rischiato che la facessi fuori io con le mie stesse mani, altro che ascolto delle due parti, mannaggia a lei!” e ci ridiamo su, che vuole dire che va meglio, che possiamo parlarne al passato, guardare a distanza quanto accaduto.
VOI TERAPEUTI POTETE ROMPERE IL SEGRETO PROFESSIONALE IN QUESTI CASI?
Questa è sempre un’annosa questione, motivo per cui accennavo alla confusione sul da farsi e alla paura di conseguenze penali, a inizio articolo.
Possiamo rompere il segreto professionale in due soli casi: quando la persona minaccia di far seriamente male a sé stessa (quindi suicidarsi) o quando minaccia del far del male a qualcun altro (es. omicidio). Tuttavia, per poter rompere il segreto non basta la fantasia, la frase volante o il semplice pensiero. Tutti possiamo avere fantasie di questo genere, senza che ciò rappresenti un pericolo, anzi in molti casi è un modo per dar voce alle forti emozioni che abbiamo dentro.
Per rompere il segreto, il pericolo di passare dal pensiero all’azione deve essere imminente, concreto. a parole, sembra semplice, ai fatti no. Quindi, di caso in caso valutiamo il da farsi. Va anche valutato se romperlo dicendolo al paziente (“Devo avvisare qualcuno, sarebbe come chiamare un’ambulanza nel caso in cui avesse un ictus qui nel mio studio, dovrei rompere il segreto”) o se avvisare il paziente possa peggiorare le cose. È un lavoro certosino, insomma, e non proprio privo di dubbi e perplessità, nonostante gli anni di esperienza.
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